I problemi dell’Italia sono figli dell’EU e della Germania

La situazione Italiana è causata dalla EU e dalla Germania, inutile continuare a negarlo. Se il paese non si riappropria della Sovranità sarà sempre più difficile risolvere i problemi economici

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di Alberto Bradanini (*)

In un passaggio tragico per il futuro economico-sociale del nostro Paese, emerge nella sua plastica evidenza che i nostri tormenti esiziali non provengono da Cina o Russia, ma esclusivamente – l’avverbio di modo non appaia mal scelto – dalla cosiddetta Unione Europea e suo tramite dalla Germania che ne governa le scelte politiche fondamentali.
Nei prossimi mesi, l’Italia dovrà affrontare difficoltà ben maggiori rispetto agli altri paesi dell’eurozona, ad eccezione forse della Grecia. Il debito pubblico in termini di Pil arriverà a fine anno al 150/160%, accentuando divisioni politiche e regresso. Se l’Italia disponesse di una banca centrale prestatrice di ultima istanza, il quadro sarebbe gestibile anche su tali livelli di debito. Ma nella patologica eurozona ciò non è possibile. Il nostro Paese verrà quindi ulteriormente colonizzato dai mercati e dalla finanza nordeuropea, guidata da quella tedesca, direttamente, via Francoforte o via Bruxelles.

Il nostro Paese vivrà in terapia intensiva, alla mercé di escursioni predatorie da parte della finanza straniera, oggetto di umiliazione e saccheggio di beni pubblici e risparmi privati. Alla fine, è verosimile che dovremo accettare quelle condizionalità alle quali il governo afferma che mai si sarebbe piegato.

Dall’Unione Europea non arriverà nulla di risolutivo, e prima l’Italia lo capirà, meglio sarà. Le diverse misure allo studio, compreso il cosiddetto fondo di ricostruzione Ue, faranno tutte aumentare il debito pubblico complessivo. Gli altri paesi dell’eurozona, Germania in primis, dispongono di una potenza di fuoco (liquidità da immettere nel sistema) ben superiore alla nostra. Il divario in seno all’eurozona si accentuerà, aggravando le prospettive di sostenibilità del sistema euro. Su tutto ciò il governo tace, per paura o per viltà.

Lo spread è una trappola devastante, che non esisterebbe se la Bce fosse anche la nostra banca centrale e che l’Italia corrisponde ai mercati per restare intrappolata nella gabbia dell’euro che taglia le ali alle straordinarie capacità del nostro popolo.

Occorrerebbe rinegoziare le fondamenta dell’impalcatura, prima di proseguire su una strada che ci porterà nel baratro del sottosviluppo economico e poi anche politico. Oppure, abbandonare il Titanic, prima che affondi.

Un acuto economista del secolo scorso affermava che la sola cosa più instabile dell’economia sono gli economisti. Un’osservazione questa che potrebbe estendersi alla politica se non fosse smentita dalla granitica stabilità dei nostri esperti e decisori politici su temi economici, tutti seguaci della medesima ideologia e in preda alla confusione davanti al dovere di restituire lavoro e speranza a un popolo alla deriva.

Il clero dei media – insieme agli ambienti, diciamo così, scientifico/accademici – tendono su questi temi a rovesciare la metodologia su cui si fonda la scienza: prima viene deciso il risultato da raggiungere, poi la strada per arrivarci. Per quanto seducente possa essere questo metodo, sarebbe bene ogni tanto guardare ai risultati. Il sentiero finisce in un baratro, ma a pochi viene in mente di cambiar direzione.

Vediamo qual è oggi l’assetto sociologico della nostra società. Gli strati alti del sistema navigano tranquilli anche durante il cattivo tempo, basta aspettare in coperta che torni il sereno, scaldandosi lo stomaco con un buon vino. Appena sotto troviamo coloro che in cambio di carriere e prebende, più o meno lecite, si adoperano per sostenere la punta della piramide: hanno un lavoro stabile e protetto, guardano il mondo con ottimismo, non si lasciamo prendere dallo sconforto. Più in basso la maggioranza, precari, occupazioni di sopravvivenza, futuro famiglie e figli quanto mai incerti, una pensione da fame se mai arriverà, vite che non avremmo sognato. In fondo gli estromessi, abbandonati all’elemosina dei viandanti, soccorsi dalla parrocchia, materia di studio per accademici e pratiche per la magistratura. Un sistema tenuto accuratamente nascosto da un esercito di incensieri mediatici – i soldati valorosi combattono nelle trincee della rete, dove cercano come possono di far sentire la loro voce di resistenti – retribuiti per nascondere l’assenza di pluralismo, di idee e di progetti sotto il grande ombrello del pensiero unico neoliberista, l’umiliante accettazione di una società ingiusta e de-etificata dall’individualismo del consumo e del profitto, e dall’abbandono sociale. La cosiddetta sinistra (indistinguibile dal suo apparente contrario) non ha alcun modello, prima ancora che intenzione, con cui battersi per un cambiamento. Essa è oggi stabilmente incorporata nell’archetipo dell’ineludibile, senza alcun afflato palingenetico, nemmeno di facciata. Il suo non-pensiero – nell’inconsapevole grigiore dei suoi dirigenti – è stato inghiottito nell’imbuto dell’immanenza ideologica, che toglie a un popolo orfano persino il valore incommensurabile del sogno.

Radio, stampa e tv ripetono sino al soffocamento cerebrale che l’Italia deve ripartire, occorre che l’economia torni a pieno regime. Una volta sconfitto il virus, vanno costruiti nuovi ospedali per non ripiombare nell’angoscia quando arriverà, prima o poi, il Covid numero 20; occorre ridare fiato alla scuola e alle università; sarà poi necessario occuparsi dei comuni, che sono allo stremo e mancano di risorse per servizi essenziali e tutela minima degli spazi collettivi. Il governo, ne siamo certi, si occuperà anche del Sud, unica regione del continente in via di perenne sottosviluppo, che ha abdicato persino all’illusione della speranza. E poi le infrastrutture, ponti che cadono e strade in disfacimento, ampie porzioni di campagne e montagne abbandonate alla clemenza della natura. Su questo lungo catalogo di bisogni si distendono, come una coperta di pietra, disoccupazione, inoccupazione, precariato, casalinghe mai tentate dalla ricerca di un lavoro inesistente e sfruttamento di umili immigrati con lo sguardo stupefatto su un paradiso che somiglia sempre più al suo contrario. Se qualcuno si domandasse quali sarebbero le probabilità che – rebus sic stantibus – i problemi elencati possano ricevere qualche significativo avvio di soluzione nei prossimi mesi o anni, il riscontro sarebbe, in una visione ottimistica, nessuna.

Al centro dell’agenda di un positivo cambiamento va messo il lavoro, un lavoro stabile e dignitoso per tutti, come proclamano i citatori di Costituzione che poi nulla fanno per attuarla. E la bizzarria di questo orizzonte è che si tratta di un obiettivo raggiungibile, se solo la sfera politica tornasse a prevalere su quella economica, il cui paradiso è fatto delle sofferenze della maggioranza oppressa.

L’Italia dispone di un esercito di braccia, da una parte, e deve costruire un’immensità di infrastrutture materiali e immateriali, dall’altra. Mancano però, ci dicono, le risorse finanziarie. Ma com’è possibile se è lo Stato a dar valore al denaro? La moneta è una costruzione normativa: nomisma da nomos, la legge in lingua greca. Lo Stato crea il denaro a costo zero, e gli dà valore. Noi lo accettiamo in cambio di beni o servizi perché con esso paghiamo le tasse.

Qualcuno penserà che l’economia moderna funzioni diversamente. Ma non è così, è tutto come un tempo. Lo Stato è povero – ci raccontano -, ed è costretto raccogliere risorse sul mercato, vale a dire dalla speculazione internazionale, per pagare stipendi, pensioni e infrastrutture, sopperendo come può ai bisogni dei cittadini. Esso invece dispone di tutte le risorse che servono, purché lo voglia.

Solo se cambieranno i rapporti di forza, si potrà indurre lo Stato, attuando la Costituzione, a imporre la democrazia politica sulla deviazione mercantilistica dell’economicismo. Per polis s’intende posizionare al centro l’interesse del popolo, scalciando l’ideologia che impone la prevalenza del profitto sui bisogni collettivi. È urgente restituire consistenza e dignità a uno Stato stremato da abbandono etico e depauperamento di risorse, come constatiamo in queste drammatiche giornate.

Occorre dunque una coraggiosa riflessione sul funzionamento dell’assetto istituzionale e monetario dell’Unione Europea, divenuta nel tempo strumento per depredare le nazioni gregarie a favore di un’oligarchia sovranazionale mai sazia di ricchezze e potere. Solo la presa di coscienza restituirà ai ceti dominati, precari ed estromessi la speranza di un futuro diverso. Nel vecchio continente, il pensiero neoliberista ha avuto bisogno di questa Unione Europea per abbattere le resistenze dello Stato nazionale (nulla a che vedere con nazionalismo/sovranismo, principio al quale si sono invece ispirate le oligarchie dominanti di Germania e satelliti), che costituiva il recinto di resistenza contro tali soprusi. Per il famelico monoteismo neoliberista lo Stato nazionale, democratico e genuinamente inter-nazionalista, che promuove un lavoro decoroso per tutti, è il nemico pubblico numero uno e, dunque, deve essere distrutto.

Ma le pagine del libro della storia sono infinite. Il dominio del denaro e l’umiliazione di una società priva di etica e di benessere non deve essere l’imbuto nel quale precipitare l’avvenire dei popoli. In un paese moderno, lo Stato – basta che lo voglia – ha a disposizione tutte le risorse di cui necessita per dare lavoro a tutti, ma proprio a tutti, e questa non è la candida aspirazione di un’anima sensibile alla sofferenza umana, sebbene ciò che è possibile non è per questo facilmente attuabile. Le idee, tuttavia, anticipano l’azione.

Davanti al bisogno di sopravvivere e di generare benessere sociale, occorre mirare al cuore, affrontando quell’edificio traballante chiamato Unione Europea, un corpus politico/giuridico che segue codici ignoti alla quasi totalità dei cittadini europei (ben pochi hanno letto – o ha tentato di farlo – i faraonici Trattati istitutivi), nomi e competenze ignote dell’ineffabile Commissione Europea, dell’euro-parlamento, del Consiglio o della Banca Centrale. Eppure, questi organismi, lontani e misteriosi, hanno in mano la vita di noi tutti, perché ad essa abbiamo consegnato le chiavi della legge e della moneta, beni supremi che consentono ai cittadini di vivere o morire.

Tranne i 19 stati appartenenti all’eurozona, 174 paesi (su un totale di 193 membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite) sono sovrani della loro moneta (e nessuno si sogna di chiamarli sovranisti!), quindi in grado di emettere a gratis, senza costo alcuno, tutta la moneta necessaria a soddisfare i bisogni dei propri cittadini. Che lo facciano o meno è una mera decisione di politica economica. Il titolo di debito può essere dunque scambiato contro contanti dalla banca centrale in qualsiasi istante. Il solo limite raccomandabile, come insegnano teoria e prassi storica, è il raggiungimento della piena occupazione, a partire dalla quale l’immissione di ulteriore moneta farebbe crescere il tasso d’inflazione oltre una soglia fisiologica (e il condizionale è d’obbligo, poiché tale conseguenza non è nemmeno certa). Nel patologico sistema dell’eurozona la moneta invece deve essere acquistata dallo Stato sui mercati pagando un tasso d’interesse, al quale nel caso dell’Italia si aggiunge lo spread, un interesse aggiuntivo che per contro consente alla nazione dominante (la Germania) di finanziarsi a costo negativo. Eppure, il profondo senso politico di tutto ciò sfugge alla vigile attenzione dei nostri governanti. Vediamo.

Il primo gigantesco deficit dell’Unione è istituzionale, prima ancora che monetario o di politica economica, dal quale discendono gli altri due, anch’essi cruciali. Nei decenni scorsi l’Italia ha irresponsabilmente ceduto prerogative costituzionali fondamentali non a un sistema democratico sovranazionale (una cessione che in ogni caso, nel rispetto della Costituzione, sarebbe dovuta avvenire con il consenso esplicito del popolo), ma a un’entità tecnocratica e giuridicamente opaca che opera in una giungla inintelligibile di procedure al servizio della finanza transnazionale e delle oligarchie dominanti, ancora una volta quella tedesca e dei paesi satelliti. Tali organismi offendono quei principi di democrazia e solidarietà che sulla carta sarebbero alla base della costruzione europea. Argomenti cruciali, eppure, accantonati con lucida follia dai mezzi di comunicazione di massa. Per costoro i cittadini sono strumento non soggetto di cultura politica, chiamati ad avvicinarsi al rumore mediatico come un consumatore alla ricerca di conferme semplificatorie e non di riflessione critica.

Soffocati dall’umiliante narrazione che ci vuole alle prese con problemi irrisolvibili dalle nostre sole forze, abbiamo ceduto le chiavi del nostro benessere a un potere sovra-nazionalizzato che impone il disvalore politico a favore dell’economicizzazione dell’azione pubblica. Sono state in tal modo sottratte allo Stato le prerogative essenziali che lo rendono tale, tra cui la sovranità istituzionale e la leva monetaria, la cui titolarità è stata trasferita alla speculazione mercantile e alle oligarchie creditizie. A questo fine era necessario denunciare scriteriatamente la propensione dello Stato a sperperare ricchezza pubblica e l’incapacità a tenere lontane infiltrazioni criminali e corruzione, esaltando un’inesistente maggiore efficienza privata. Tra le braccia imparziali (sic!) di strutture sovrastatuali o di governi stranieri più rigorosi avremmo imparato a vivere e prosperare all’insegna della solidarietà e della vera democrazia. Orrore e abbaglio in un colpo solo.

La moneta, il fisco e la politica economica vengono in tal modo consegnati a funzionari con stipendi stellari e pilotati da interessi mercantili ed extra-nazionali. Non è certo un dettaglio se la legge finanziaria italiana, la più importante che il Parlamento approva ogni anno, deve prima ottenere il via libera della Commissione Ue per essere discussa ed eventualmente approvata in sede nazionale.

Le leggi europee (chiamate eufemisticamente regolamenti e direttive, e preparate da una tecnocrazia sensibile ai grandi gruppi industriali situati negli stessi corridoi dei palazzi europei) prevalgono così su quelle nazionali. L’euro-parlamento, l’unico corpo elettivo è anche quello che conta meno (e non a caso assegnato a un italiano) e non dispone nemmeno del potere d’iniziativa legislativa, essenza di ogni parlamento degno di questo nome: le leggi proposte dalla Commissione vi fanno una rapida apparizione per essere poi approvate o respinte dal Consiglio, quando serve a maggioranza, quindi solo se in linea con gli interessi tedeschi. Infine, la Banca Centrale Europea, che diversamente dalle omologhe degli altri paesi, si occupa solo di lotta al fantasma dell’inflazione, invece di far crescere l’economia e combattere la disoccupazione.

Sorprende come la pioggia nel deserto la cecità di un ceto dirigente che ripete sino al tedio una filastrocca che ha invece le note di un canto funebre. E se l’abbandono della moneta comune sarebbe una decisione complicata e traumatica, vi sono però alcune cose che si possono fare subito, rispettando persino i funesti Trattati Ue: la creazione di una o più banche pubbliche che forniscano liquidità a imprese e cittadini (come fanno tra gli altri tedeschi e francesi), l’emissione di CCF (Certificati di Credito Fiscale) o anche di biglietti di Stato a corso legale solo in Italia, sulla scorta di proposte avanzate da eminenti economisti ed esperti di finanza. Proposte tuttavia che il Ministero dell’Economia e Finanza ignora metodicamente, seguendo il principio dispotico della noncuranza. Se dunque nel mezzo di una tragedia come questa il livello politico e la potente burocrazia del Mef rispondono con un muro di gomma, e poiché nulla sotto il sole avviene per caso, possiamo azzardare la spiegazione che essi non rispondano agli interessi del popolo, ma ad altro, a carriere eterodirette o forse semplicemente all’angoscia di dover passare all’azione.

(*) Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i molti incarichi ricoperto, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.



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