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Medicina territoriale e protocolli nostrani per terapie domiciliari precoci sarebbero la soluzione migliore per combattere l'epidemia

Tempo di lettura: 6 minutes
di Francesco Cappello

Ascoltando i medici che praticano la medicina territoriale si evince che la rigidità dei protocolli emessi dall’AIFA, basati su dati della letteratura scientifica ancora incompleti e in divenire (vedi il caso idrossiclorochina), hanno ridotto i medici ad esecutori acritici di quelle linee guida indipendentemente dalla loro efficacia effettiva. In altre parole quei protocolli imposti senza la necessaria verifica, hanno impedito ai medici di fare i medici che pensano al capezzale del malato alle strategie terapeutiche più opportune, mettendo a frutto l’esperienza, l’arte e la scienza di cui sono detentori riconosciuti.
È urgente, quindi, ascoltare tutti quei medici, che mettendo in comune la loro esperienza sul campo, hanno selezionato quelle cure domiciliari vincenti che possono essere portate ai pazienti con successo.

I medici che hanno avuto il coraggio di andare oltre le linee guida e i protocolli ufficiali hanno individuato, sulla base della loro esperienza sul campo, protocolli di cura domiciliare di grande successo. Bisogna, allora, coadiuvarli e rafforzarli legittimando la loro pratica.
Trattare i pazienti a domicilio significa
combattere all’origine lo spavento che porta le persone ad affollare i pronto soccorso, arrivare alla riduzione drastica dei ricoveri, degli accessi al pronto soccorso e delle ospedalizzazioni ottenendo la prevenzione delle complicanze gravi richiedenti terapia intensiva.

Più terapie domiciliari, quindi, rispettose di una tempistica di pronto intervento sin dalle primissime fasi del manifestarsi della sintomatologia (contrariamente alle linee guida cinesi di febbraio e quelle OMS che prescrivevano l’attesa insieme alla somministazione della tachipirina per calmierare la febbre vedi nota (1)), attraverso l’applicazione di un protocollo adeguato alla situazione messo a punto dalla esperienza messa a comune dei medici, composto da classi di farmaci, già sperimentati, peraltro a basso costo e di grande efficacia nel prevenire l’ospedalizzazione del paziente.
Il protocollo individuato dai medici che hanno fatto e fanno terapia domiciliare precoce è stato ora sottoposto all’AIFA perché diventi patrimonio e pratica corrente di tutti i medici di base. È questo il modo principe di evitare le chiusure coatte generalizzate che hanno già arrecato danni incommensurabili alla società intera.

La terapia domiciliare precoce, entro le prime 24 ore dalla comparsa dei sintomi, è la più efficace alternativa al Lockdown, alla ospedalizzazione e, quindi, ai decessi. Ostacolare o anche solo tardare ulteriormente la applicazione generalizzata di tale strategia su tutto il territorio nazionale non potrebbe essere giudicato altrimenti che criminale.

La medicina territoriale nell’esperienza del dottor Luigi Cavanna primario di oncoematologia nell’ospedale di Piacenza, parla di una terapia domiciliare e di FANS in senato. Per primo ha iniziato a seguire i pazienti a casa con ecografia e terapie. Un metodo che se seguito avrebbe la potenzialità di imprimere la svolta decisiva nel contrasto dell’epidemia.

 

Prevenzione e terapia domiciliare precoce a cura del dott. Stefano Manera

Il dott. Pietro Luigi Garavelli, direttore di Malattie infettive del Maggiore, con Luigi Cavanna, primario di Oncologia a Piacenza, in conferenza stampa al Senato sul tema delle terapie domiciliari precoci lancia un appello: «Auspico che presto l’idrossiclorochina ritorni nella piena fruibilità dei medici».

Se ne parlava già da aprile…
Ascoltiamo Claudio Puoti, infettivologo ed epatologo, responsabile del Centro di epatologia dell’Istituto Ini di Grottaferrata che riporta le tante segnalazioni di pazienti, anche suoi colleghi, lasciati a casa per giorni, trattati con solo paracetamolo (tachipirina), che si sono velocemente aggravati fino ad arrivare al ricovero e spesso alla morte.

“Da qui l’idea di elaborare un protocollo, insieme a un gruppo di esperti, per una terapia domiciliare precoce: un documento che ha avuto già l’adesione di oltre 2.500 medici, virologi, ricercatori e cittadini di ogni regione. Nel documento, portato all’attenzione delle istituzioni, si punta a un intervento rapido, a 24 ore dai primi sintomi chiari come tosse e febbre alta, e a una riorganizzazione della terapia domiciliare per evitare l’eccessiva ospedalizzazione, spesso causa di altri contagi. E contiene novità: “Uno: non attendere il tampone di fronte a una sintomatologia classica. Lo dico da oltre un mese. Considerando che l’epidemia di influenza è terminata e quest’anno è stata assai meno aggressiva, se si hanno febbre alta, tosse, emicrania, perdita del gusto e olfatto, dolore toracico, cosa si vuole che abbia una persona in questo periodo?”.
Inoltre, spesso i tamponi danno falsi negativi e nell’attesa del risultato, comunque il virus va avanti. Tampone sì, ma è bene, intanto, avviare la terapia. “Si parla molto di clorochina, assai diffusa per i malati reumatologici, associata a un antibiotico, l’azitromicina e il terzo passaggio è l’eparina, perché ormai emergono dati che alla polmonite interstiziale si associa o va in parallelo un problema di embolie disseminate, che sono una delle due cause di morte se non la principale“.
Nel documento si indicano anche dosaggi dei farmaci. Una terapia già applicata in altri paesi e dal costo esiguo, per 5-7 giorni. Il problema, spiega il Prof. Puoti è che c’è una vera e propria giungla. Molti già lo applicano questo protocollo, ma non ci sono statistiche, molti lo applicano e non lo dicono. Lui ha lanciato un sondaggio anonimo tra i medici e sta raccogliendo i risultati.
“So per certo che si applica a Piacenza, c’è un modello Piacenza, che prevede che le Usca non vadano a casa come in altre regioni per monitorare i pazienti ma per fornire la terapia, così come ad Alessandria; mi pare assurdo che ci siano aree in cui si fa ma non si dice, aree in cui si fa e si dice e aree in cui si dice e non si fa. A Piacenza il collega mi segnalava che nel 98% dei casi i pazienti sono guariti o non sono stati ricoverati“.
A livello operativo entrano in campo delle squadre, come le cosiddette Usca, unità speciali per le cure domiciliari già attivate in molte regioni: un medico e un infermiere, a casa del paziente, con tutte le precauzioni del caso e l’attenta valutazione del malato. Il rischio altrimenti è il fai da te. Pericolosissimo.
“Le Usca non possono limitarsi a essere dei gruppi di controllo e monitoraggio ma devono essere gruppi di terapia: devono arrivare a casa del malato con un elettrocardiografo portatile perché la clorochina può dare problemi, fare un analisi del sangue per verificare altri possibili problemi e dare il trattamento al paziente in collegamento con il medico di base di quel paziente per sapere se prende altri farmaci e ci sono possibili interazioni, non è così complicato”.
Il personale può essere reclutato su base volontaria, attingendo agli elenchi delle migliaia di medici e infermieri che hanno risposto all’appello del governo nelle aree più colpite dal virus. Ma è urgente giocare d’anticipo, soprattutto con la fase due. Manca invece un coordinamento. E non ci sono dati effettivi sulla clorochina”.

(1) testimonianza della
DOTT.SSA GRAZIA DONDINI
Medico di base in provincia di Bologna

Noi medici di medicina generale, tutti gli anni, generalmente da ottobre a marzo, vediamo polmoniti interstiziali, polmoniti atipiche. E tutti gli anni le trattiamo con antibiotico. Si tratta di pazienti che vengono in ambulatorio con sintomi simil-influenzali – tosse, febbre, poi compare “senso di affanno” – che non si esauriscono nell’arco di qualche giorno. La valutazione del paziente e l’evoluzione clinica depongono per forme batteriche; si dà loro un antibiotico macrolide (e nei casi più complicati del cortisone) e, nell’arco di qualche giorno, si riprendono egregiamente con completa risoluzione dei sintomi.
Quest’anno non è andata così… Il 22 febbraio di quest’anno è stata comunicata la circolazione di un nuovo coronavirus. Il Ministero della Salute ha mandato un’ordinanza a tutti noi medici del territorio, dicendoci sostanzialmente che eravamo di fronte a un nuovo virus, sconosciuto, per il quale non esisteva alcuna terapia. La cosa paradossale è che fino a quel giorno avevamo gestito i medesimi pazienti con successo, senza affollare ospedali e terapie intensive; ma da quel momento si è deciso che tutto quello che avevamo fatto fino ad allora non poteva più funzionare. Non era più possibile un approccio clinico/terapeutico. Noi, medici di Medicina generale, dovevamo da allora delegare al dipartimento di Sanità Pubblica, che non fa clinica, ma una sorveglianza di tipo epidemiologico; potevamo vedere i pazienti solamente se in possesso di mascherina FFP2, che io ho potuto ritirare all’ASL solo il 30 di marzo. Ma c’è una cosa più grave.
Nella circolare ministeriale, il Ministro della Sanità ci dava le seguenti indicazioni su come approcciarci ai malati: isolamento e riduzione dei contatti, uso dei vari DPI, disincentivazione delle iniziative di ricorso autonomo ai servizi sanitari, al pronto soccorso, al medico di medicina generale. Dunque, le persone che stavano male erano isolate; e, cosa ancora più grave, il numero di pubblica utilità previsto non rispondeva. Tutti i pazienti lamentavano che non rispondeva nessuno; io stessa ho provato a chiamare il 1500 senza successo. Un ministro della salute che si accinge ad affrontare una emergenza sanitaria prevede che i numeri di pubblica utilità non rispondano?
Un disastro.
In sintesi: le polmoniti atipiche non sono state più trattate con antibiotico, i pazienti lasciati soli, abbandonati a se stessi a domicilio. Ovviamente dopo 7-10 giorni, con la cascata di citochine e l’amplificazione del processo infiammatorio, arrivavano in ospedale in fin di vita. Poi, la ventilazione meccanica ha fatto il resto.
Io ho continuato a fare quello che ho sempre fatto, rischiando anche denunce per epidemia colposa, e non ho avuto né un decesso, né un ricovero in terapia intensiva. Ho parlato con una collega di Bergamo e un altro collega di Bologna, che hanno continuato a lavorare nel medesimo modo, e nessuno di noi ha avuto decessi e ricoveri in terapia intensiva. Anche l’OMS ha dato indicazioni problematiche: nelle prime fasi della malattia ha previsto solo l’isolamento domiciliare, nella seconda e terza fase, quindi condizioni di gravità moderata e severa, l’unico approccio terapeutico previsto doveva essere l’ossigenoterapia e la ventilazione meccanica. A mio modo di vedere c’è una responsabilità anche dell’OMS, perché non ha dato facoltà al medico di valutare clinicamente il paziente.

https://www.francescocappello.com

 

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Associazione Articolo Tre

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